L’Alzheimer ruba vita agli anni. E lo fa a tante persone: circa il 6% degli over 60 e al 20% degli over 80 degli italiani vengono colpiti da quella che rappresenta la più comune causa di demenza e per la quale non esiste ancora una cura definitiva. La ricerca però sta facendo grossi passi in avanti soprattutto in termini di diagnosi precoce, un dato essenziale che potrebbe fornire nuove strategie per contenerne gli effetti e garantire ai pazienti la qualità della vita migliore possibile.

Particolarmente significativo da questo punto di vista uno studio condotto dall’università dell’Insubria di Varese, in collaborazione con l’ASST Sette Laghi, che ha confermato come la quantità di una particolare molecola in alcune zone del cervello sia diversa tra persone malate di Alzheimer e persone sane, tanto da eleggerla come marker per effettuare, tramite un esame del sangue, una diagnosi precoce di questa patologia neurodegenerativa. La molecola in questione si chiama D-serina ed è un amminoacido che permette, in base al livello riportato, di stabilire la regolare, o meno, attività di neurotrasmissione.

Il team che sta portando avanti il progetto è formato dal professor Luciano Plubelli, dalla professoressa Silvia Sacchi, Valentina Rabattoni Loredano Pollegioni del Dipartimento di Biotecnologie e scienze della vita dell’università dell’Insubria affiancato da i neurologi dell’ospedale di Varese che fa capo alla ASST Sette Laghi: Lucia Princiotta Cariddi, Maurizio Versino e Marco Mauri. La squadra di neurologi dell’ASST Sette Laghi si è occupata di coinvolgere pazienti e familiari per recuperare i campioni necessari alla ricerca, campioni che sono stati poi analizzati dal team dell’Insubria che costituisce il “Protein Factory 2.0”, un’unità di ricerca che si occupa di studi sulle proteine e argomenti a esse collegate.

Per lo studio sono state coinvolte 42 persone tra i 64 e gli 87 anni d’età, comprese quelle sane che sono state esaminate per fasce d’età. Attraverso una metodica chiamata HPLC, cromatografia liquida a elevata prestazione, si è valutata la componente sierica di persone che si trovano nella fase precoce della malattia. Questa tecnica consente di dosare quantità infinitesimali degli amminoacidi oggetto di studio presenti nel sangue dei pazienti e di riconoscere le molecole marker della malattia.
Il risultato è stato che i livelli di D-serina nel siero erano alterati in misura direttamente proporzionale alla gravità dell’Alzheimer.
Si tratta di un primo importante indicatore della malattia che, insieme ad altri che speriamo vengano individuati, possono aiutare la diagnosi precoce attraverso esami veloci e non invasivi soprattutto nelle persone più a rischio. Le diagnosi precoci consentono di solito, se non di guarire o evitare la malattia, di intervenire in tempo per rallentarne il decorso e migliorare la qualità della vita del paziente per quanto più tempo possibile.

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