Per “libertà” si intende la condizione di chi può decidere a suo piacere della propria persona, di chi può godere della propria autodeterminazione. È qualcosa che ha a che fare con l’ottenimento di ciò che si crede produca piacere, che è quindi proprio per questo desiderabile. Infatti la radice è la stessa di “libidine” e di “libare”, concetti connessi al raggiungimento del piacere. Libero è chi non è “servus” e nella Roma antica quando un servo raggiungeva la libertà diveniva, appunto, “Liberto”. Il liberto però non era libero nel senso odierno (o meglio, vedremo che lo era proprio in tal senso), ma pur potendo intraprendere attività economiche per suo conto, era sempre sottomesso al suo “patronus”, o protettore, al quale doveva comunque obbedienza, prestazione di lavoro gratuito, rimanendo a vivere nella stessa casa del patronus. Il liberto non era quindi realmente libero, anzi, diveniva ancora più utile al padrone poiché in questa nuova condizione poteva esplicare compiti e mansioni che ad uno schiavo non erano permesse. Poteva fargli da segretario o trattare affari, ad esempio. Ogni signore aveva in effetti decine se non centinaia di liberti e ciò, se non fosse stato questo un vantaggio per il signore rispetto ad avere semplici schiavi, non sarebbe potuto avvenire.  La libertà del liberto era più che altro parvenza, se non teniamo conto dell’aspetto economico. Infatti, pur potendo possedere beni e terreni, il liberto, oltre a dover lavorare gratuitamente per il patrono, non poteva denunciarlo in tribunale. La sua sudditanza era testimoniata poi dal fatto che, pur potendo egli votare, non poteva candidarsi. Ai liberti erano inoltre proibiti matrimoni con i liberi cittadini e venivano da essi disprezzati dal punto di vista delle relazioni sociali. Erano insomma galoppini di lusso o, se vogliamo azzardare un paragone, kapo’.

Ora, proprio partendo da tale etimologia, potremmo sostenere che nelle attuali democrazie lo stato dei cittadini non sia quello di uomini liberi ma proprio quello di liberti. Che per uno schiavo di due millenni fa sia stato forse un passo avanti nella gerarchia dei tenori di vita potremmo anche comprenderlo, ma comprendere oggi come questa situazione di soggezione sia tollerabile proprio non è possibile.  Per capire meglio il senso di questo stato di “libertà” alla quale siamo sottoposti dobbiamo soffermarci sui due significati possibili di libertà: “libertà da” e “libertà di”. La prima è assenza della sensazione di costrizione, la seconda è coscienza dell’ampiezza delle proprie possibilità esistenziali. Sulla seconda non si è in grado di riflettere se non ci si rende conto dei condizionamenti che il sistema politico occidentale di oggi ci propina senza darceli a vedere.  Un bambino che può scegliere liberamente ogni giorno se giocare con i videogiochi, guardare la televisione o fare puzzle, conoscendo solo queste tre possibilità, è certamente “libero da”, ma un bambino a cui viene proibito, ogni giorno, di compiere alcune attività tra le mille che ha a disposizione, perché le conosce e ne ha fatto esperienza, è sicuramente più “libero di” rispetto al primo, anche se non è “libero da”. Quale condizione è da preferire?

Il concetto di libertà è stato, nella storia del pensiero politico, concepito in molte accezioni tra loro contrapposte: da una parte il liberalismo classico, centrato sulla nozione di un individuo impegnato nello sganciamento progressivo da ogni impaccio, che sia religioso, giuridico, sessuale, di costume; dall’altra l’idea hegeliana e gentiliana di libertà come adesione ad un modello di società statuale storicamente determinato e trasmesso tramite la bildung, all’interno del quale perseguire una progettualità più grande.

Soffermiamoci qui sull’idea di libertà propria del liberalismo. Di formulazione ottocentesca, essa sembra contrapporsi con forza ad una concezione che privilegi la collettività rispetto all’individuo, come quella socialista prima e comunista poi. La lotta per la libertà da parte dei liberali si basa non sulla difesa della “libertà da” e della “libertà di” ma esclusivamente della prima. Infatti Stuart Mill, il pioniere del liberalismo, mostra di comprendere tale differenza tanto da suggerire l’utilizzo di vocaboli diversi per questi concetti, rispettivamente “liberty” e “freedom”. Solo della prima idea si occupa il liberalismo, mentre della seconda non parla affatto. Lo stesso Mill parla infatti di “libertà negativa”, intendendo specificare quali catene intenda spezzare: il controllo dei governi sull’economia; le pastoie religiose; le idee di redistribuzione economica e di responsabilità sociale; i legami etnici. Il seguace di Hayek (tra i grandi del liberalismo) Philippe Nemo disse che “la giustizia sociale è profondamente immorale”. Proprio dal punto di vista morale si tratta di un approccio utilitaristico, quello liberale, di stampo moderno, e infatti la matrice  anglosassone li accomuna.

La lotta tra liberalismo e marxismo è però una lotta fittizia: entrambi sono creazioni del grande capitale a proprio vantaggio. Entrambi condividono una visione del mondo economicistica e materialista, entrambi si oppongono alla spiritualità, entrambi negano la realtà di una coesione sociale preesistente, arcaica, tradizionale, che vogliono distruggere in egual modo.  Marx fa suoi i contenuti degli economisti inglesi di stampo liberale, Adam Smith tra tutti, e ne porta alle estreme conseguenze i principi, mai rinnegandoli del tutto. Il comunismo non è contro il capitalismo, ne è semplicemente lo sviluppo, la fase successiva. Sappiamo senza ombra di dubbio che Marx spingesse all’estremo sviluppo del capitale industriale, teoricamente perché solo passando attraverso il suo completo dispiegamento, si sarebbe giunti alla fase della dittatura proletaria, ma praticamente e più verosimilmente perché egli era un ricco ed agiato signore che viveva di rendita coi soldi del padre e dell’amico ed industriale Engels, un comunista che giocava in borsa e che mai mise il piede in una fabbrica. Per questi motivi, ad esempio, si oppose ad una regolamentazione in senso umanitario del lavoro minorile. La matrice identica dei due movimenti non è visibile solo analizzandone l’origine, ma anche e soprattutto osservandone gli esiti. La sinistra marxista eterodossa, l’unica praticamente rimasta in piedi, è quella che nel ’68 ha contribuito a spianare la strada del capitalismo e della globalizzazione, distruggendo ogni ordine, ogni identità e ogni sacralità, quella statuale, quella famigliare e quella etnica, suoi nemici giurati. Marx stesso mai si stancava di ringraziare l’operato della borghesia contro queste entità che egli considerava spauracchi da eliminare.  Oggi l’estrema sinistra si trova sulle stesse posizioni del liberalismo più spinto, il pensiero libertario, nel rivendicare la lotta contro le razze, i popoli, le religioni, e nel promuovere il sostegno alla legalizzazione delle droghe, alla scelta del proprio genere e orientamento sessuali, compresi incesto, perversioni e perfino pedofilia.

Si capisce quindi che il liberalismo non è per la libertà in sé, ma solo per la propria idea di libertà e che verso quelle diverse si comporta da regime autoritario, progettando come un totalitarismo qualsiasi il destino dei propri sudditi. Il liberalismo dice di difendere l’individuo ma l’individuo che il liberalismo intende difendere è ridotto ad una monade sganciata da ogni appartenenza sociale. C’è un errore di fondo o si tratta di una volontà? La seconda, a mio parere. Sia i liberali che i marxisti infatti non possono non sapere che l’identità di un uomo è in gran parte determinata da contesti e costrutti relazionali, sociali, sia orizzontale (nel presente) che verticali (col passato) che poco o niente hanno a che vedere con l’economia e la libertà di possedere ed acquistare oggetti. Ogni tentativo di rimozione di tali legami si scontra con la loro permanenza a livello di inconscio o di volizioni arcaiche o di atteggiamenti antieconomici e con la loro potente riemersione ciclica. La negazione di tale volto dell’uomo, portata avanti in nome di una sua liberazione, è un’opera di ingegneria sociale volta al fallimento.  Qual è l’origine di tale atteggiamento comune? La fede irrazionale nel progresso, una visione messianica della storia, l’incapacità di godimento estetico dell’esistente. Ciò accumuna marxismo e liberalismo.  Se la fede irrazionale nel progresso dal punto di vista marxista si è infranta nelle tante previsioni non azzeccate da parte del guru di Treviri, dal punto di vista liberale l’esito nefasto è un po’ più difficile da scorgere. Sostanzialmente il riscatto del singolo liberato dall’oppressione comunitaria – il sogno dei liberali, e dal punto di vista economico dei liberisti – si basa anch’esso su un’utopia: che l’individuo possa ergersi a fautore del proprio destino una volta recuperata l’autonomia economica all’interno di uno Stato minimo. Perché si tratta di una visione utopica? Perché l’individuo, ammesso che possa gestire le sue proprietà e il suo tempo e che non sia un novello liberto al servizio dei potentati elitari che hanno creato entrambe le suddette ideologie, vive comunque la maggior parte della propria vita come un essere sociale. In tale ambito che, ripeto, è il preponderante, è costretto a subire ciò che pochissimi (100, 1000 famiglie?) decidono per lui. Non troverà i libri che saranno banditi, non avrà accesso a culti e mitopoiesi alternative perché esse abbisognano di condivisione, non avrà accesso alle critiche del sistema, non avrà a disposizione alternative dal punto di vista culturale, si scioglierà insomma nella esistenza inautentica regolata dal “si impersonale”, per dirla con Heidegger. Se anche pochi singoli individui perverranno ad una “illuminazione”, gli scampoli di verità a cui avranno accesso saranno slegati, disomogenei e così sparuti da rendere impossibile un cambiamento dello stato delle cose. Anzi, la presenza discretissima di tali dissidenti non avrà altro scopo che fungere da testimonianza della tolleranza del sistema, che invece è tollerante solo finché scorge che il dissidente non ha alcuna possibilità di incidere. È per questo che oggi i libertari, i liberisti e i liberali non fanno altro che il gioco della globalizzazione, poiché opponendosi allo Stato, identificato magari anche a ragione come un presupposto della creazione dei potentati economici, non fanno altro che spianare ad essa la strada. Quale altro ostacolo infatti potrebbe avere?  Il carattere utopico del cosiddetto anarco-capitalismo si scontra oggi con la verità della proprietà unica di immensi imperi nel campo della comunicazione. Auspicando una deregolamentazione, la cancellazione di ogni antitrust, di ogni salvaguardia del bene comune, tali cartelli avrebbero totalmente mano libera nella distruzione di ogni resistenza. Anche ove i liberisti potessero dire che l’individuo rimane libero di scegliere il proprio bene e penalizzare un cartello, essi si mostrano massimamente superficiali proprio nel non capire come il concetto di “proprio bene” oggi, nell’epoca della post-verità, è improponibile. Il “proprio bene” è quell’idea che viene ripetuta più volte e dai rappresentanti più autorevoli, che oggi sono quelli maggiormente presenti nei media di proprietà degli stessi che dalla diffusione di quel concetto specifico di “proprio bene” hanno tutto da guadagnarci, dal punto di vista economico e da quello, più importante, del mantenimento del potere.  Anche partendo da un ipotetico punto zero di sostanziale eguaglianza tra gli individui, l’equilibrio che i cultori della “libertà da” sperano di ottenere, avrebbe sì e no la durata di un soffio, poiché subito si stabilirebbe una gerarchia che la natura ha sempre evidenziato. Figuriamoci allora quale esito potrebbe avere questo anelito alla deregolamentazione, al ritirarsi dell’azione della collettività, in un mondo in cui la ricchezza e la capacità di offendere sono già distribuite in maniera così poco equa! Lo dicano allora questi liberisti che non sono altro che darwinisti sociali e neo malthusiani! Le varie reti di cui un uomo è composto sono ciò che nei secoli lo hanno protetto da un totale assoggettamento al potere di turno. La mania di “liberare da” propria del liberalismo e la corsa alla dissoluzione della famiglia, solo per fare un esempio, trasformata in un ordine meramente contrattuale, non fa altro che menomare l’uomo, rendendolo il succube perfetto, perché disancorato, del totalitarismo democratico. Specularmente il marxismo, intendendo ridisegnare i legami arbitrariamente, ad esempio con il legame di classe, ha condotto la stessa lotta per la dissoluzione dell’uomo, preparando anch’esso il campo per la globalizzazione totalitaria.

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