Guardando delle rovine d’epoca romana, una quota importante di ciò che manca è stato trasformato in calce (vedere l’articolo “I calcinatori medievali”) e un’altra parte, forse la più cospicua, è stata reimpiegata. Fino al 1500, infatti, il concetto di archeologia o semplicemente quello di conservazione e salvaguardia delle testimonianze d’epoche passate, era considerato un’idea bislacca. A chi poteva interessare, infatti, preservare delle vecchie pietre consunte dal tempo?
Iniziò quindi la dispersione sistematica dei particolari architettonici d’epoca romana. Nulla fu risparmiato: né i luoghi di culto, né le abitazioni né tanto meno i mausolei gentilizi che i romani usavano erigere lungo le strade d’accesso più importanti delle città (Es. l’Appia antica). Con grande dispiacere degli archeologi, molto fu decontestualizzato: un fregio tombale diventò una lesena, una lapide venne trasformata nel gradino di una scala, una stele diventò la soglia di una finestra, un sarcofago venne trasformato in altare. Molto altro fu spostato altrove rispettandone però la sua funzione primaria: il capitello di un tempio pagano ora campeggiava in una chiesa, la colonna del porticato delle terme ora sosteneva le volte di una cripta, il rovescio di un bassorilievo raffigurante sul diritto un senatore romano fu utilizzato per scolpire un nuovo soggetto (com’è il caso per la parte centrale della lunetta del portale nell’abbazia di San Firmano di Montelupone – foto allegata) . Conci di tutte le dimensioni furono reimpiegati per erigere le mura dei palazzi nobiliari, torri, edifici comunali, moli dei porti fluviali e marittimi, ponti e quant’altro. Nel tempo, podestà, papi e imperatori cercarono di arginare il fenomeno con apposite leggi, senza molto successo. Si trovano tracce di regolamenti in tal senso ma spesso le eccezioni erano così numerose da inficiarne il contenuto legale; ad esempio, le abbazie e i cantieri delle chiese avevano via libera nel recupero: ecco allora perché all’abbazia di Chiaravalle di Fiastra si trovano particolari della vicina Urbs Salvia, che in quella di San Vittore di Cingoli si trovano frammenti ascrivibili all’antica città di Planina, oppure nell’abbazia di San Firmano di Montelupone si rinvengono frammenti provenienti con tutta probabilità dalla colonia romana di Potentia (oggi in territorio di Porto Recanati) o da Helvia Recina.
In molti casi, il reimpiego aveva un aspetto squisitamente pratico e utilitario, ovvero l’utilizzo di qualcosa di vecchio in un contesto nuovo ma non per forza analogo, anzi spesso differente, in modo da fornire al pezzo in questione un nuovo ordine funzionale: il frammento era già pronto, immediatamente disponibile e per di più gratuito. Tutto ciò rendeva chiaramente superfluo e antieconomico fabbricarne uno nuovo.
La spoliazione dei templi pagani ad opera dei monasteri, delle diocesi e anche dei papi, fu intesa come il trionfo della cristianità sul politeismo, attraverso una sorta di consapevole profanazione, un esorcismo che sottolineava fortemente il sopravvento di Cristo sulle divinità ancestrali. Di ciò è esempio lampante, l’uso di erigere le chiese sulle fondamenta stesse dei luoghi di culto idolatri.
Nel basso medioevo, le spoglie riutilizzate dovevano essere interscambiabili poiché, anche se adattate allo scopo, era necessario che corrispondessero a rigidi criteri di uniformità fondendosi nel contesto generale senza generare rotture nell’armonia stilistica. Nell’alto medioevo questo concetto perse importanza e i canoni formali delle proporzioni furono stravolti: non era più necessario che i capitelli si adattassero al diametro delle colonne; se i fusti erano troppo piccoli, si compensavano con basamenti più alti impilando sgraziatamente pezzi con diverse funzioni e così via. Si crearono così insiemi scevri da qualsiasi canone estetico e in alcuni casi decisamente schizofrenici. Ne troviamo molti esempi nelle nostre splendide abbazie marchigiane.
La materia del reimpiego, come immaginabile, è complessa e affascinante. Per chi volesse approfondire, esistono dei bellissimi e imperdibili testi editi dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Macerata e scritti dal Prof. Ivan Rainini, archeologo e docente all’Università Ambrosiana di Milano. Eccone i titoli: “Antiqua spolia. Reimpieghi di epoca romana nell’architettura sacra medievale del maceratese” – “Archeologia di frontiera. Antichità romane nel medioevo marchigiano fra i Sibillini e l’altopiano plestino” e “L’abbazia di Chiaravalle di Fiastra. La cultura dell’antico”.

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