Ad ottobre scorso è stata confermata in Appello la condanna all’ergastolo a carico di Innocent Oseghale per l’omicidio di Pamela Mastropietro, di cui il 30 gennaio sarà il triste anniversario. La terribile vicenda contribuì a far emergere il problema della cosiddetta “mafia nigeriana” di cui oggi, a quasi tre anni dal caso Mastropietro vogliamo parlare.
Per farlo abbiamo voluto ascoltare una voce controvento, quella di Marco Valerio Verni.
Avvocato e titolare dell’omonimo studio legale internazionale, 44 anni, l’avvocato Verni annovera, nel suo prestigioso curriculum, anche una lunga formazione in ambito militare, avendo frequentato, tra l’altro, il più alto Istituto a ciò deputato, nell’ ambito interforze della Difesa italiana, ossia l’Istituto Alti Studi per la Difesa (IASD), oltre ad essere giornalista pubblicista e zio di Pamela Mastropietro.
Avvocato, lei è in prima linea per far conoscere la piaga della cosiddetta “mafia nigeriana”…
Sì, esatto, in questo momento mi sto occupando proprio di sensibilizzare persone e Istituzioni a questo problema che, purtroppo, è stato molto sottovalutato e sminuito, un po’ come accadeva alla fine del secolo scorso con la criminalità organizzata nostrana di cui, semplicemente, veniva negata l’esistenza.
Da cosa scaturisce questa riottosità a suo parere?
Beh, si tratta sicuramente di un argomento scomodo perché tira in ballo temi politici assolutamente di primo piano come quello dell’immigrazione irregolare; per farla breve, spesso quando uno ne parla viene tacciato subito di razzismo o xenofobia e si chiude la questione.
Certo fa strano vedere che gli stessi politici e personaggi pubblici artefici di questa operazione, spesso sedicenti attivisti per i diritti delle donne, preferiscano glissare su un argomento così ricco di implicazioni viste le immense sofferenze che queste organizzazioni criminali impongono soprattutto alle nigeriane, spesso usate a mo’ di schiave, per la prostituzione.
Il problema comunque c’è, e non lo dice il sottoscritto, ma i report della Direzione Investigativa Antimafia, organo che opera ben al di sopra delle convinzioni politiche dei partiti.
Capisco, senta ma quali sono, se ce ne sono, le peculiarità di questo tipo di criminalità organizzata? In quali ambiti opera?
Nel nostro Paese le attività principali sono lo spaccio di stupefacenti, l’accattonaggio, lo sfruttamento della prostituzione e più in generale quelle che sono ad esse delegate dalle nostre mafie, in quello che, spesso, può essere definito un vero e proprio rapporto di collaborazione. In questo modo le mafie “appaltatrici” possono così concentrarsi, ad esempio, sugli appalti truccati, rafforzando i propri rapporti sporchi con le Istituzioni.
Come molta parte del crimine, organizzato e non, vi è poi tutta una filiera del denaro che viene trasferito dall‘Italia al Paese d’origine tramite l’ormai notissimo Money transfert o, nel caso specifico, attraverso la prassi della cosiddetta “Hawala”.
Questo in particolare è un sistema di scambio del denaro che avviene in forma fiduciaria e che funziona secondo il meccanismo per cui se io, che risiedo in Italia, devo dare dei soldi a qualcun altro, che sta in Nigeria, chiamo un mio contatto in loco e gli chiedo di trasferire il denaro al mio posto con la promessa poi di ricambiare il favore o restituire la somma. Esiste, inoltre, anche una cassa comune cui hanno accesso i capi e i vari affiliati ai “cult”: questa viene continuamente spostata per motivi di sicurezza ed è denominata “Osusu”.
Che cos’è un “cult”?
Il cult per la mafia nigeriana è quello che sono i clan o le cosche per la mafia nostrana, sono dei gruppi formati da affiliati la cui appartenenza, sancita da speciali riti che potremmo definire iniziatici, sembra esclusivamente riservata a nigeriani; ogni cult ha poi delle specifiche connotazioni e simbologie che lo distinguono dagli altri, come per esempio l’adozione di colori particolari nel vestiario. Recentemente il Procuratore Nazionale Antimafia, Cafiero De Raho, ha inoltre ipotizzato che questi gruppi non agiscano in modo autonomo e indipendente ma che possano fare riferimento ad un’unica cabina di regia, alla stregua di una vera e propria cupola mafiosa.
Una struttura quindi di cui sappiamo ancora poco…
Diciamo che ne sappiamo qualcosa in più, finalmente, rispetto al passato. Da una parte, è cambiata l’ottica investigativa, che ha iniziato a considerare quelli che prima venivano considerati fatti criminosi a sé stanti, in un quadro d’insieme; dall’altra, iniziano a spuntare i primi “pentiti”, sebbene essi siano ancora molto pochi, visto il forte legame, costruito su omogeneità etnica dei componenti e ritualità religiose comuni, che unisce un affiliato al proprio cult.
Da quello che sappiamo, inoltre, sembra che agli affiliati venga anche garantita una assistenza economica e, all’occorrenza, pure legale, almeno fino a quando non si infranga la rigidissima condotta che viene imposta, basata sull’omertà: a quel punto subentrano la tortura o la morte. Pensi che tempo fa è stato sequestrato, a Roma, quello che è stata denominata la “Green Bible”, un libro in cui sono riportati scritti, in maniera analitica e dettagliata, i dettami da osservare per gli affiliati: tra questi, il divieto assoluto di avere rapporti di alcun tipo con rappresentanti delle forze dell’ordine, dalla semplice chiacchierata a legami più stretti.
Un altro motivo per cui indagare tale fenomeno sia particolarmente complesso e difficile, risiede nell’impossibilità di infiltrare agenti sotto copertura, per l’ovvia ragione del colore della pelle, oltre che per le numerose varianti dialettali, spesso sconosciute agli stessi interpreti.
Verrebbe quasi da definire quella nigeriana come una “mafia etnica”, per ora quindi quali sono le informazioni certe?
La mafia nigeriana è, per definizione, etnica, come altre. Ormai essa è diffusa in tutte le Regioni d’Italia, ed ha una proiezione internazionale sempre più capillare ed in costante crescita a causa della continua fornitura di “personale” in arrivo dall’Africa tramite l’immigrazione clandestina. Anche questa non è una mia opinione personale, ma un dato che, per esempio, anche i servizi segreti tedeschi hanno riportato al proprio Parlamento nel gennaio 2019, individuando l’Italia come la principale porta d’ingresso per la mafia nigeriana.
Il recente attentato terroristico di Nizza, d’altronde, ha anch’esso evidenziato come, sui barconi che approdano a Lampedusa, vi si trovino anche dei criminali, al netto di altre considerazioni sui migranti che effettivamente, poi, abbiano diritto alla protezione internazionale oppure no.
Abbiamo inoltre varie informazioni circa l’origine di queste organizzazioni che sembrano essersi sviluppate dalle confraternite universitarie, quindi in un contesto che poco ha a che vedere con quel disagio socio-economico di cui spesso si sente parlare per spiegare la genesi del fenomeno mafioso, che, in casi come questo, ha ai suoi vertici menti piuttosto colte e raffinate e che poi, certamente, si sviluppa sfruttando situazioni di crisi per ampliare il proprio business e consolidare il proprio potere. Il legame tra mafia e ambienti “bene” della società nigeriana suggerisce anche una profonda commistione tra queste organizzazioni criminali e le Istituzioni autoctone.
Poco fa ha accennato a riti iniziatici e torture, può essere più specifico?
Ogni aspirante affiliato ad un cult deve affrontare un percorso iniziatico in cui sono previste torture rituali: l’iniziato, ad esempio, viene pestato a sangue; questo poi viene raccolto e posto in un recipiente unitamente alle sue lacrime, dando vita ad un composto che poi l’aspirante stesso dovrà bere al culmine del rituale.
Ci sono poi gli ormai noti riti “Ju-Ju”, usati soprattutto per consacrare agli spiriti le donne poi sfruttate nella prostituzione che, in questo modo, vengono ridotte in un vero e proprio stato di schiavitù nei confronti delle maman (le protettrici o, meglio, sfruttatrici), con la minaccia di essere perseguitate e uccise dagli spiriti stessi, o torturate a morte dai loro aguzzini, in caso, ad esempio, si ribellassero alle suddette o decidessero di denunciare la loro condizione di sfruttamento.
A questo proposito mi permetta di fare un appunto a quella parte politica, anche straniera (vaticana in particolare, da noi, per le ovvie ripercussioni che ha sul nostro Paese), che, da un lato, cerca sistematicamente di sminuire il problema della mafia nigeriana, e che, dall’altro, si erge ipocritamente in prima linea contro la violenza sulle donne: non è il caso di smetterla con queste contraddizioni? Vogliamo far passare sotto traccia il dolore di queste donne solo perché sennò dovremmo iniziare a parlare di politica migratoria a trecentosessanta gradi e di integrazione, con particolare riguardo alle associazioni varie, a come vengono gestiti i relativi percorsi, al controllo sul regolare svolgimento degli stessi? Si figuri che, per rimanere al caso di Oseghale, né lui nei i suoi connazionali, dopo anni che sono qui da noi, hanno dichiarato di saper parlare l’italiano.
Ne approfitto per lanciare un appello, rivolto alle donne nigeriane, vittime di questi criminali: denunciate, perché lo Stato italiano è in grado di aiutarvi e di tutelare la vostra sicurezza con programmi di assistenza e protezione. Anche per i vostri cari.
A tal proposito, proprio negli scorsi giorni si è celebrata la giornata mondiale contro la violenza sulle donne: lei ha vissuto sulla propria pelle una tragica vicenda. Mi riferisco all’omicidio di Pamela Mastropietro, sua nipote. Questo evento, dai contorni ancora poco chiari, ha costretto ad accendere i riflettori sul problema della mafia nigeriana, fino a quel momento praticamente sconosciuto all’opinione pubblica. Le chiedo, proprio in relazione a questo, perché si è ipotizzato un coinvolgimento della mafia nigeriana e quali sono le tesi a sostegno di questa teoria?
Più che un coinvolgimento diretto, non è da escluderne uno indiretto, nel senso che Innocent Oseghale, il cui ergastolo è stato confermato in appello a ottobre scorso, ne può forse far parte, così come altri soggetti, entrati, a vario titolo, nella vicenda demoniaca che lei ha ricordato. Tale nostra convinzione ha trovato supporto, peraltro e, direi, finalmente, in alcune considerazioni svolte dalla stessa Procura Generale di Ancona, durante la sua requisitoria nel giudizio di secondo grado poc’anzi ricordato.
Due riflessioni su tutte, al riguardo: è alquanto strano che Oseghale abbia dapprima disarticolato, depezzato chirurgicamente, decapitato, scuoiato, scarnificato, esanguato, asportato di tutti i suoi organi interni, Pamela, impiegandoci diverse ore, oltre che spendendo molte energie fisiche e mentali, per poi abbandonarla sul ciglio di una strada, in due trolley, ordinatamente riposti e che, in teoria, chiunque avrebbe potuto rinvenire già dal secondo successivo al loro deposito lì. L’idea, dunque, è che qualcun altro li avrebbe dovuti prendere ma che qualcosa sia andato storto. In secondo luogo, a fronte di questo demoniaco scempio, che lo stesso consulente medico legale della Procura di Macerata ha definito un “unicum” nella storia della criminologia mondiale degli ultimi cinquanta anni, e di un imputato che nega di aver mai fatto prima una cosa del genere, neanche su un animale, vi sono, oltre che l’assurdità e l’evidente illogicità di quanto affermato da quest’ultimo, alcune intercettazioni in carcere tra i due connazionali dello stesso Oseghale, inizialmente coindagati con lui, secondo i quali, invece, costui conoscesse molto bene come fosse fatto il corpo di una donna, “avendolo fatto altre volte”, in Nigeria, ed essendo uno dei capi.
Poi, potremmo parlare degli interpreti spaventati, dei segni sul corpo dello stesso Oseghale, che potrebbero indicare una sua affiliazione a qualche cult, le dichiarazioni di un collaboratore di giustizia in tal senso, le fotografie rinvenute sul cellulare di uno degli altri due di cui sopra, in cui sono ritratte persone di colore evidentemente torturate, a scopo iniziatico o punitivo. E di altro ancora. Io rimango sempre pronto ad un confronto pubblico con chi di dovere, al di là delle aule di giustizia. Perché se è vero che i processi si svolgano in esse, è altrettanto vero che ciò non proibisca un confronto sulle questioni generali, soprattutto quando vi siano pensieri, diciamo così, discordanti.
Qual’è la sua opinione?
Più che la mia opinione, lascerei parlare alcuni fatti: dopo gli efferati accadimenti del 30 gennaio 2018, a danno di Pamela, hanno avuto luogo numerosi arresti, facendo venire a galla uno scenario sconcertante, che ha consegnato alle cronache una città, Macerata, divisa addirittura in zone di spaccio da parte di alcune strutture criminali nigeriane.
Mi chiedo se tutto ciò non fosse stato possibile farlo prima.
Poi certo, generalmente parlando, dipende molto da come vengano impostate le indagini e dall’esito, di volta in volta, delle stesse: perché cambia molto il poter contestare un reato associativo, anche di tipo mafioso, dal considerare, invece, come singoli episodi, potenzialmente riconducibili a reati “sentinella”, i diversi, numerosi e reiterati accadimenti criminosi che vengono posti in essere.
È il problema che ha contraddistinto, per lungo tratto, come dicevo prima, la lotta alle nostre mafie (ed, anzi, prima ancora, il loro riconoscimento “culturale”) e che, da un paio di decenni, forse più, ha riguardato quelle etniche, nigeriana in primis.
Ma le recenti operazioni di diverse Direzioni distrettuali antimafia in tutta Italia, Marche e provincia di Macerata comprese (con buona pace di chi negava categoricamente il problema), sembrano poter far affermare che, finalmente, si stia iniziando ad andare nella giusta direzione.
Quello che occorre, a mio avviso, è un urgente, che non vuol dire non ponderato, aggiornamento della normativa esistente e/o una sua interpretazione adeguata alla nuova realtà, in cui la dialettica è tra “associazione di tipo mafioso” e “associazione mafiosa tipo”.
A Macerata da poco è arrivata Libera, l’associazione che fa capo a Don Ciotti e che si occupa di lotta alle mafie…
Si. Confido che essa affronti come si conviene anche il tema, appunto, di quelle etniche, perché oggi il fenomeno è spesso unitario, e non si può parlare delle prime senza farlo pure delle seconde. Ci sono organizzazioni da smantellare, crimini da denunciare e, soprattutto, vittime da ascoltare e proteggere.

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